QUANDO A L'FIORES L'AMUR
Flavio Burgarella ed io condividiamo l'anno di nascita e l'infanzia trascorsa in un paese della bergamasca, anche se non lo stesso.
Non molto d'altro: la nostra conoscenza è recente e i nostri interessi sono simili solo in piccola parte. E ci saremo parlati, sì e no, tre volte, per giunta brevemente. Tuttavia, ho letto con curiosità crescente le sue pagine in versi e ne ho ricavato considerazioni che forse sono di qualche utilità, per chi si accinga a godersi quest'ultima sua silloge.
Innanzitutto, vale la pena di porsi alcune domande concatenate.
Come mai un cardiologo, di impegno e di fama internazionali, decide a un certo punto della sua carriera prestigiosa di dedicarsi alla scrittura letteraria? Perché mai, dopo le prime opere di riflessione divulgativa sul proprio lavoro di medico del cuore, approda alla scrittura in versi? E perché, infine, lo scrivere versi lo porta alla scelta espressiva del dialetto e del mondo della memoria che questo veicola, come avviene nella presente raccolta ed in quella che l'ha preceduta?
Sembrerebbe – a giudicare così, dal di fuori – che la scrittura abbia gradualmente preso il sopravvento sulle decisioni di Burgarella e che adesso sia lei a comandare nella mente del medico scrittore. Intendo dire che, una volta scelto di affidare la comunicazione di sé e della propria esperienza alla scrittura, quest'ultima sia venuta progressivamente imponendo non solo la tipologia espressiva, dalla prosa ai versi, ma i contenuti stessi da comunicare, lo stile e infine la lingua con cui trasmetterli.
Ed ecco, quindi, apparire sulla pagina del medico, che scriveva per divulgare i valori umanitari della propria professione, il mondo interiore, i ricordi d'infanzia e d'amicizia, la religiosità primaria e solida ereditata dai vecchi, le situazioni e le figure di paese, la memoria dei mestieri e della vita contadina e, per naturale conseguenza, la lingua originaria, in cui queste cose sono state vissute: il dialetto, la lingua matriciale dell'anima, almeno per chi ha imparato a pensare e a comunicare il mondo in quella lingua.
Il dialetto ha così restituito a Burgarella (e ai suoi lettori) la più radicata e profonda memoria di sé. Si badi, tuttavia, che non si tratta del riemergere di un mondo psicologico lontano e, ormai, intriso soltanto di nostalgia. Basta infatti scorrere i deliziosi quadretti di questo volumetto, per capire che ci troviamo di fronte alla declinazione, in varie forme, di un modello di educazione morale, ereditato dall'infanzia paesana e contadina, mediato dal dialetto e riscoperto come fondamento etico delle scelte che si sono fatte nella vita di poi e della visione delle cose che quella vita ha caratterizzato e diretto. Non a caso, quel mondo si ripropone, oltre che negli ultimi componimenti, anche nell'organizzazione della tenuta di campagna, in cui l'autore ha deciso di vivere – per come sia ancora oggi possibile – secondo quei modelli contadini germinali della propria esistenza.
In conclusione, una domanda che si faranno in tanti: consegue valori di poesia l'opera di Flavio Burgarella? è forse prematuro rispondere, ma quello che intendo dire oggi è che sono certamente poetiche le intenzioni espressive di questo autore ed è autentica la sua ispirazione. E non mi sembra davvero poco.
Gabrio Vitali